AVVOCATO

Avvocato 2019. Svolgimento del parere civile n. 2

12 Dicembre 2019

Traccia

L’imprenditore edile Caio, venuto a conoscenza che l’amico Sempronio ha intenzione di ristrutturare l’appartamento in cui abita, si dichiara disponibile a eseguire personalmente i lavori all’uopo necessari e predispone un preventivo per il complessivo importo di 45.000 euro.

Sempronio, ricevuto brevi manu il preventivo, vi appone a penna alcune modifiche, indicando il corrispettivo di 35.000 euro e precisando che i lavori avrebbero dovuto iniziare entro il 15 novembre 2019 e avrebbero dovuto concludersi entro il 31 gennaio 2020.

Lo stesso Sempronio riconsegna poi a Caio il documento così modificato. Dopo alcuni giorni, in data 10 ottobre 2019, Caio invia a Sempronio una email, regolarmente ricevuta dal destinatario, con la quale dichiara di accettare le nuove condizioni e si rende disponibile ad iniziare i lavori già dal 18 ottobre.

Con successiva email del 15 ottobre 2019, Sempronio comunica, però, di voler annullare la propria commissione e invita Caio a non dare avvio alle opere.

Qualche tempo dopo, però, Sempronio riceve una lettera da parte di Caio, nella quale questi, lamentando l’inadempimento agli obblighi contrattuali, chiede la corresponsione della somma di 35.000 euro a titolo di ristoro del danno conseguente alla mancata esecuzione del contratto. Sempronio si rivolge dunque ad un legale per conoscere quale posizione assumere nei confronti dell’altrui pretesa creditoria.

Il candidato, assunte le vesti del legale di Sempronio, rediga un parere motivato, illustrando le questioni sottese al caso in esame e indicando la linea difensiva più utile a tutelare la posizione del proprio assistito.

Giurisprudenza

  • Cass. civ., sez. II, 16 novembre 2017, n. 27258. Ove facciano difetto circostanze di fatto atte a dimostrare che il committente si sia riservato l'organizzazione e la divisione del lavoro e degli strumenti tecnici, assumendo, quindi, il rischio del conseguimento del risultato ripromessosi, la qualità di imprenditore del soggetto cui sia stata affidata l'esecuzione di un'opera o di un servizio fa presumere che le parti abbiano inteso stipulare un contratto d'appalto e non di opera. (Nella specie, la S.C. ha confermato la sentenza impugnata, la quale, muovendo dall' importanza dell’opera commissionata – riguardante l’impermeabilizzazione dei lastrici solari di copertura di un fabbricato condominiale – e tenendo conto del fatto che questa era stata affidata ad una ditta specializzata, aveva ritenuto che la sua esecuzione presupponesse un’organizzazione di impresa tale da ricondurre il contratto alla figura dell’appalto) (presente nel Codice civile commentato 2019, sotto l’art. 2222 par. 4, p. 2981).
  • Cass. civ., sez. II, 6 giugno 2017, n. 14006. Costituisce accertamento riservato al giudice di merito, non sindacabile in sede di legittimità se non per vizio di motivazione, valutare se l’intesa raggiunta dai contraenti abbia ad oggetto un regolamento definitivo del rapporto ovvero un documento con funzione meramente preparatoria di un futuro negozio, e, nel compiere tale verifica, il giudice può fare ricorso ai criteri dettati dagli artt. 1362 e ss. c.c. per ricostruire la volontà delle parti, tenendo conto sia del loro comune comportamento, anche successivo, sia della disciplina complessiva dalle stesse dettata. (Nella specie, la S.C., nel confermare la sentenza impugnata, ha rimarcato la mancanza di una descrizione analitica dei tempi e delle modalità di esecuzione della prestazione e di pagamento del corrispettivo, nonché di espressioni idonee ad evidenziare, in modo univoco, il sorgere del reciproco sinallagma contrattuale, ritenendo irrilevante la mera sottoscrizione del preventivo da parte del committente, non accompagnata da alcuna espressione da cui potesse desumersi l’assunzione di una vera e propria obbligazione).
  • Cass. civ., sez. VI, 6 giugno 2012, n. 9132In ipotesi di recesso unilaterale del committente dal contratto di appalto, ai sensi dell’art. 1671 c.c., grava sull’appaltatore, che chiede di essere indennizzato del mancato guadagno, l’onere di dimostrare quale sarebbe stato l'utile netto da lui conseguibile con l'esecuzione delle opere appaltate, costituito dalla differenza tra il pattuito prezzo globale dell'appalto e le spese che si sarebbero rese necessarie per la realizzazione delle opere, restando salva per il committente la facoltà di provare che l'interruzione dell'appalto non ha impedito all'appaltatore di realizzare guadagni sostitutivi ovvero gli ha procurato vantaggi diversi” (presente nel Codice civile Giuffrè Francis Lefebvre 2019, sotto l’art. 1671 c.c., par. 2, p. 2220).
  • Cass. civ., sez. II, 8 gennaio 2003, n. 77L’indennizzo cui è tenuto il committente in favore dell’appaltatore a norma dell’art. 1671 c.c., nel caso di recesso unilaterale dal contratto di appalto, costituisce obbligazione risarcitoria, come si evince dal significato etimologico-lessicale dell’espressione ‘tenere indenne’ e dal principio per il quale pure i danni derivanti da attività lecite vanno risarciti al danneggiato incolpevole, sicché, vertendosi in tema di debito di valore e non di valuta, il giudice deve tener conto nella relativa quantificazione, anche d’ufficio, della svalutazione monetaria sopravvenuta sino alla data della liquidazione, e degli interessi moratori” (presente nel Codice civile commentato 2019, sotto l’art. 1671 c.c., par. 2, p. 2221). 

Svolgimento

Al fine di valutare quale posizione debba assumere Sempronio nei confronti della pretesa creditoria vantata da Caio, occorre, in primo luogo, qualificare astrattamente il rapporto giuridico che le parti intendevano instaurare.

Ciò impone di analizzare il contratto d’appalto, disciplinato dagli artt. 1655 ss. c.c.

Segnatamente, l’art. 1655 c.c., nel fornire una nozione dell’istituto de quo, prevede che “L'appalto è il contratto col quale una parte assume, con organizzazione dei mezzi necessari e con gestione a proprio rischio, il compimento di un'opera o di un servizio verso un corrispettivo in danaro”. 

Come facilmente evincibile fin da una prima lettura del dato normativo, si tratta di un contratto di risultato, in quanto l’oggetto del negozio in esame è rappresentato non già dalla prestazione di una determinata attività, bensì dal raggiungimento di un dato prodotto, ovvero il compimento dell'opera o del servizio pattuiti. Ne consegue, dunque, che il rischio che l’attività non produca il risultato promesso gravi sull’appaltatore.

Inoltre, il contratto in esame è tipicamente oneroso, sinallagmatico ed essenzialmente obbligatorio, in quanto a carico dell'appaltatore sorge l'obbligo di eseguire l'opera o il servizio, mentre l'appaltante è tenuto al pagamento del corrispettivo in denaro.

Altro requisito essenziale del negozio in esame, evincibile anch’esso dalla nozione codicistica di cui all’art. 1655 c.c., è l'autonomia dell'appaltatore, il quale non è legato al committente da alcun vincolo di subordinazione e assume il rischio della gestione.

L'ultimo elemento individuato dal legislatore, ovvero l'organizzazione, presuppone che l'appaltatore debba necessariamente rivestire la qualifica di imprenditore. Tale requisito consente di distinguere la fattispecie de qua dal contratto d’opera, disciplinato dall’art. 2222 c.c.: invero, mentre il contratto d’appalto si caratterizza, appunto, per l’esistenza di un’organizzazione di media o grande impresa, il contratto d’opera presuppone, invece, che l’esecuzione dell’opera commissionata avvenga con il prevalente lavoro del soggetto obbligato, anche se coadiuvato da componenti della sua famiglia.

Ai sensi dell’art. 1662, comma 2, c.c., l'obbligazione principale dell'appaltatore consiste nell'eseguire l'opera secondo le condizioni stabilite dal contratto e a regola d'arte. Per converso, il committente è tenuto al pagamento del corrispettivo per la realizzazione dell’opera.

Ciò premesso, nel caso di specie, l’imprenditore edile Caio si era offerto di eseguire i lavori di ristrutturazione dell’appartamento dell’amico Sempronio e, a tal fine, aveva predisposto un apposito preventivo di spesa, in seguito parzialmente modificato da Sempronio in relazione al corrispettivo e alla data di inizio e fine lavori e, successivamente, accettato in via definitiva dall’imprenditore.

Orbene, non è dato sapere quali fossero le modalità di organizzazione e di divisione del lavoro, risultando solamente che Caio si fosse dichiarato disponibile ad eseguire personalmente i lavori all’uopo necessari. Tale assunto sembrerebbe prima facie far propendere per la configurabilità di un contratto d’opera.

Peraltro, la qualifica da questi rivestita – imprenditore edile, dunque titolare di una ditta specializzata in opere di edilizia -, oltre che l’entità dei lavori a lui commissionati – la ristrutturazione di un intero appartamento – consentono senza dubbio di qualificare il rapporto giuridico astrattamente intercorso con Sempronio come un contratto d’appalto ex art. 1655 c.c.

A conferma di quanto appena osservato, si rileva che anche la Suprema Corte di Cassazione abbia precisato che “Ove facciano difetto circostanze di fatto atte a dimostrare che il committente si sia riservato l'organizzazione e la divisione del lavoro e degli strumenti tecnici, assumendo, quindi, il rischio del conseguimento del risultato ripromessosi, la qualità di imprenditore del soggetto cui sia stata affidata l'esecuzione di un'opera o di un servizio fa presumere che le parti abbiano inteso stipulare un contratto d'appalto e non di opera. (Nella specie, la S.C. ha confermato la sentenza impugnata, la quale, muovendo dall' importanza dell’opera commissionata – riguardante l’impermeabilizzazione dei lastrici solari di copertura di un fabbricato condominiale – e tenendo conto del fatto che questa era stata affidata ad una ditta specializzata, aveva ritenuto che la sua esecuzione presupponesse un’organizzazione di impresa tale da ricondurre il contratto alla figura dell’appalto)” (Cass. civ., sez. II, 16 novembre 2017, n. 27258 – presente nel Codice civile commentato 2019, sotto l’art. 2222 par. 4, p. 2981).

Una volta chiarito il rapporto giuridico astrattamente configurabile tra le parti, giova peraltro rilevare che Caio e Sempronio non avessero sottoscritto formalmente alcun contratto di appalto, ma che avessero raggiunto un accordo in ordine ai costi, alle tempistiche e ai lavori da effettuare, sulla base di un mero preventivo di spesa inizialmente redatto dall’imprenditore e, poi, modificato da Sempronio, con successiva approvazione di Caio.

Occorre, quindi, domandarsi se tale preventivo di spesa possa valere a tutti gli effetti di legge come contratto d’appalto e, dunque, se il sinallagma contrattuale, così come precedentemente qualificato, possa considerarsi validamente insorto.

A questo proposito, è necessario richiamare l’art. 1326 c.c., il quale, al primo comma, dispone che “Il contratto è concluso nel momento in cui chi ha fatto la proposta ha conoscenza dell'accettazione dell'altra parte”.

Il quinto comma, tuttavia, precisa che “Un’accettazione non conforme alla proposta equivale a nuova proposta”.

Nel caso di specie, l’iniziale preventivo di spesa formulato dall’imprenditore è stato successivamente modificato da Sempronio in alcuni dei suoi elementi – segnatamente, il corrispettivo e la data di inizio e fine dei lavori -, configurando, in tal modo, una nuova proposta ex art. 1326 , comma 5, c.c. Questa è stata, da ultimo, accettata, con le relative modifiche, da Caio, mediante una dichiarazione in tal senso trasmessa a mezzo mail, nella quale l’imprenditore si è reso altresì disponibile ad iniziare i lavori fin dal 18 ottobre 2019, quindi nel rispetto del termine di inizio lavori proposto dall’amico.

Ebbene, poiché le parti non avevano concordato alcuna forma specifica ai fini dell’accettazione della relativa proposta (si veda, sul punto, il comma 4 del richiamato art. 1326 c.c.), l’accettazione formulata via mail dall’imprenditore deve ritenersi pienamente efficace ex art. 1326 , comma 1, c.c.

Con specifico riferimento al documento utilizzato dalle parti per instaurare il vincolo negoziale – la proposta contrattuale, lo si ricorda, è stata formulata attraverso un preventivo di spesa -, è bene rilevare che il contratto d’appalto non sia soggetto ad alcun obbligo di forma, e che, pertanto, non richieda, a pena di nullità, la forma scritta, potendoessere concluso anche per facta concludentia.

Pertanto, nel momento in cui, a prescindere dalla forma impiegata, le parti abbiano precisato analiticamente i tempi e le modalità di esecuzione della prestazione e del pagamento del corrispettivo e tali aspetti siano stati reciprocamente accettati in modo inequivocabile dalle medesime, come nel caso di specie, il contratto deve ritenersi validamente concluso.

Quanto appena osservato si pone perfettamente in linea con quanto il disposto di cui all’art. 1362 c.c., in materia di “intenzione dei contraenti”, secondo il quale “Nell'interpretare il contratto si deve indagare quale sia stata la comune intenzione delle parti e non limitarsi al senso letterale delle parole”.

Ad ulteriore precisazione, il secondo comma chiarisce che “Per determinare la comune intenzione delle parti, si deve valutare il loro comportamento complessivo anche posteriore alla conclusione del contratto”.

È, pertanto, ininfluente che le parti abbiano chiamato il documento de quo come preventivo di spesa, essendo regolato, al suo interno, l’intero rapporto contrattuale in tutti i suoi aspetti.

Sul punto, si è recentemente espressa anche la Suprema Corte, la quale, chiamata a decidere su un accordo raggiunto tra le parti con preventivo di spesa, ha affermato che “Costituisce accertamento riservato al giudice di merito, non sindacabile in sede di legittimità se non per vizio di motivazione, valutare se l’intesa raggiunta dai contraenti abbia ad oggetto un regolamento definitivo del rapporto ovvero un documento con funzione meramente preparatoria di un futuro negozio, e, nel compiere tale verifica, il giudice può fare ricorso ai criteri dettati dagli artt. 1362 e ss. c.c. per ricostruire la volontà delle parti, tenendo conto sia del loro comune comportamento, anche successivo, sia della disciplina complessiva dalle stesse dettata” (Cass. civ., sez. II, 6 giugno 2017, n. 14006).

Nella vicenda sottoposta all’attenzione della Corte di Cassazione, tuttavia, il preventivo di spesa non recava, al suo interno, una descrizione analitica dei tempi e delle modalità di esecuzione della prestazione e di pagamento del corrispettivo e difettava di espressioni idonee ad evidenziare, in modo univoco, il sorgere del reciproco sinallagma contrattuale, risultando irrilevante la mera sottoscrizione del preventivo da parte del committente, non accompagnata da alcuna espressione da cui potesse desumersi l’assunzione di una vera e propria obbligazione.

Nel caso in esame, invece, tali requisiti erano stati tutti ampiamente precisati, soprattutto a seguito delle modifiche apportate da Sempronio e successivamente approvate da Caio e, pertanto, il sinallagma contrattuale è da ritenersi pienamente comprovato.

Chiarito tale aspetto, a questo punto della trattazione occorre verificare se l’intenzione, manifestata dal solo committente, di voler annullare la propria commissione sia legittima o, al contrario, possa aver dato origine all’inadempimento contrattuale lamentato dall’imprenditore.

Al riguardo, è necessario richiamare l’art. 1671 c.c., il quale, nell’ambito della disciplina del contratto d’appalto, regola espressamente l’ipotesi di recesso unilaterale dal contratto.

Più precisamente, la richiamata norma prevede che “Il committente può recedere dal contratto, anche se è stata iniziata l'esecuzione dell'opera o la prestazione del servizio, purché tenga indenne l'appaltatore delle spese sostenute, dei lavori eseguiti e del mancato guadagno”.

Da quanto testé esposto consegue che il committente possa recedere unilateralmente dal contratto, senza la necessità di effettuare qualsivoglia indagine sull’importanza e gravità dell’inadempimento, a condizione, però, che tenga indenne l’appaltatore sotto tre distinti aspetti: le eventuali spese da questi sostenute, i lavori eseguiti dal medesimo ed il mancato guadagno conseguito dall’interruzione dell’appalto.

Ebbene, nel caso in analisi è evidente che l’indennità relativa ai lavori effettuati fino a quel momento non possa ritenersi dovuta, giacché Sempronio ha comunicato via mail di voler annullare la propria commissione il 15 ottobre 2019, dunque 3 giorni prima rispetto alla data indicata da Caio per l’inizio dei lavori (18 ottobre 2019, appunto).

In quella stessa mail, inoltre, Sempronio ha invitato l’imprenditore a non dare avvio alle opere, le quali, pertanto, non erano state ancora neanche parzialmente realizzate.

Alla stregua di quanto sopra, dunque, l’unico indennizzo apparentemente spettante a Caio sembrerebbe riguardare le spese da lui eventualmente sostenute fino a quel momento e il mancato guadagno, che dovranno essere adeguatamente provati dall’appaltatore ex art. 2697 c.c.

Peraltro, al fine di meglio chiarire la portata di tale indennizzo, è necessario spendere qualche parola in ordine alla sua natura.

A questo proposito, la giurisprudenza di legittimità ha ribadito a più riprese che, a differenza del recesso pattuito dalle parti ex art. 1371 c.c., “L’indennizzo cui è tenuto il committente in favore dell’appaltatore a norma dell’art. 1671 c.c., nel caso di recesso unilaterale dal contratto di appalto, costituisce obbligazione risarcitoria, come si evince dal significato etimologico-lessicale dell’espressione ‘tenere indenne’ e dal principio per il quale pure i danni derivanti da attività lecite vanno risarciti al danneggiato incolpevole, sicché, vertendosi in tema di debito di valore e non di valuta, il giudice deve tener conto nella relativa quantificazione, anche d’ufficio, della svalutazione monetaria sopravvenuta sino alla data della liquidazione, e degli interessi moratori” (Cass. civ., sez. II, 8 gennaio 2003, n. 77 - presente nel Codice civile commentato 2019, sotto l’art. 1671 c.c., par. 2, p. 2221). 

Alla stregua di quanto appena osservato, quindi, trattandosi di un debito di valore, è del tutto evidente che la pretesa creditoria vantata da Caio, relativa al pagamento di un risarcimento pari all’importo del corrispettivo precedentemente pattuito nel  contratto di appalto, non possa che ritenersi illegittima.

Al più, questi potrà pretendere un indennizzo nei termini di cui all’art. 1671 c.c., purché riesca a dimostrare “quale sarebbe stato l'utile netto da lui conseguibile con l'esecuzione delle opere appaltate, costituito dalla differenza tra il pattuito prezzo globale dell'appalto” - 35.000 euro – “e le spese che si sarebbero rese necessarie per la realizzazione delle opere, restando salva per il committente la facoltà di provare che l'interruzione dell'appalto non ha impedito all'appaltatore di realizzare guadagni sostitutivi ovvero gli ha procurato vantaggi diversi” (Cass. civ., sez. VI, 6 giugno 2012, n. 9132 - presente nel Codice civile Giuffrè Francis Lefebvre 2019, sotto l’art. 1671 c.c., par. 2, p. 2220).

Sempronio, dal canto suo, potrà, quindi, escludere la legittimità di qualsivoglia pretesa creditoria dimostrando eventualmente che, nonostante l’interruzione dell’appalto, l’imprenditore abbia comunque conseguito guadagni sostitutivi, ovvero vantaggi diversi, e che pertanto non sia a lui dovuto alcun indennizzo.