REATO IN GENERE

L’irrilevanza degli stati passionali ed il reato di mantenimento in schiavitù. Atto di appello della parte civile

18 Dicembre 2020

Traccia

Caia e Mevio, nonostante la giovane età, decidono di sposarsi ma, a causa delle precarie condizioni economiche di entrambi, sono costretti ad abitare nella stessa casa dei genitori del ragazzo.

I suoceri di Caia, Tizio e Sempronia, le fanno pesare costantemente questa convivenza forzata, sottoponendola a continue pretese e vessazioni.

Tali comportamenti si acuiscono alla morte di Mevio, deceduto prematuramente in un incidente stradale.

Difatti, da quel momento i rapporti tra la giovane e i genitori del defunto marito si fanno sempre più tesi. Gli stessi le impediscono di uscire, arrivando perfino a segregarla per diverse ore nella cantina di casa e, per di più, la costringono a recarsi quotidianamente presso la tomba di Mevio.

Caia, inizialmente, cerca di sopportare i suddetti soprusi perché economicamente impossibilitata a reperire un nuovo alloggio. Con il trascorrere del tempo, però, la situazione diventa insostenibile e la ragazza, stanca di subire continue angherie da parte di entrambi, decide di denunciarli all’Autorità Giudiziaria.

Ciononostante, a seguito di dibattimento, Tizio e Sempronia vengono assolti dai reati di cui agli artt. 600 e 605 c.p., perché ritenuti non imputabili per aver agito in condizioni di eccessivo stress emotivo, causato dalla morte del figlio. Inoltre, ad abundantiam, la Corte d’Assise rileva che, quanto alla fattispecie ex art. 600 c.p., non sussistesse alcuna reificazione della ragazza da parte dei due suoceri.

Caia, quindi, si reca immediatamente dal suo legale di fiducia al fine di concordare quale strategia difensiva adottare.

Il candidato, assunte le vesti del legale di Caia, rediga l’atto giudiziario più idoneo alla tutela delle sue ragioni.

Articoli di riferimento

  • Artt. 576 e 581 c.p.p.

Fattispecie

Gli stati emotivi o passionali disciplinati ai sensi dell’art. 90 c.p. non escludono l’imputabilità del soggetto agente, salvo che integrino una vera e propria patologia, tale da escludere la capacità di intendere e di volere.

Istituti

  • Art. 61 c.p. (Circostanze aggravanti comuni);
  • Art. 90 c.p. (Stati emotivi o passionali);
  • Art. 600 c.p. (Riduzione o mantenimento in schiavitù o in servitù);
  • Art. 605 c.p. (Sequestro di persona).

Giurisprudenza

  • Cassazione penale, sez. V, 12 ottobre 2020, n. 34504. È configurabile il concorso tra reati di maltrattamenti e sequestro di persona se la condotta di sopraffazione che privi la vittima della libertà personale non si esaurisce in una delle modalità in cui si esprime l'abituale coercizione fisica e psicologica costituente una delle fasi del reato abituale di maltrattamenti, ma ne configura un picco esponenziale dotato di autonoma valenza e carico di ulteriore disvalore, idoneo a produrre, per un tempo apprezzabile, un'arbitraria compressione della libertà di movimento della vittima, anche se non in modo assoluto.
  • Cassazione penale, sez. V, 17 febbraio 2020, n. 15662. In tema di riduzione in schiavitù, ai fini della configurabilità del requisito dello stato di soggezione della persona offesa, rilevante per l'integrazione del reato, non è necessaria la totale privazione della libertà personale della medesima, ma soltanto una significativa compromissione della sua capacità di autodeterminazione. (Fattispecie in cui la Corte ha ritenuto la sussistenza del reato – rilevando come fosse irrilevante un minimo margine di autodeterminazione residuato alle vittime, cui era comunque impossibile sottrarsi al condizionamento degli imputati – in relazione alla condizione di ragazze nigeriane, anche minori d'età, totalmente private dei guadagni derivanti dall'attività di prostituzione esercitata e dei documenti necessari alla permanenza nel territorio italiano, tenute in stato di totale carenza di mezzi di sussistenza, limitate nella libertà di movimento ed intimidite da violenze e minacce).
  • Cassazione penale, sez. V, 16 maggio 2017, n. 42751. Affinché sussista il reato di riduzione in schiavitù non è necessaria un'integrale negazione della libertà personale, ma è sufficiente una significativa compromissione della capacità di autodeterminazione della persona offesa, idonea a configurare lo stato di soggezione rilevante ai fini dell'integrazione della norma incriminatrice; lo stato di soggezione continuativa deve essere rapportato all'intensità del vulnus arrecato all'altrui libertà di autodeterminazione (nella specie, la Corte ha ritenuto irrilevante che alle vittime restasse la possibilità di compiere singoli atti in autonomia o di allontanarsi temporaneamente dall'organizzazione, prevalendo, invece, la condizione di coartazione psicologica continuativa in cui gli agenti le avevano ridotte).
  • Cassazione penale, sez. V, 5 maggio 2016, n.  23052. Ai fini della configurabilità del reato di riduzione in schiavitù non incidono, sulla rilevanza penale della condotta, nelle sue oggettive connotazioni, le particolari motivazioni culturali o di costume che abbiano mosso il soggetto agente. (In applicazione del principio, la S.C. ha annullato la sentenza che aveva assolto gli imputati dal reato di riduzione in schiavitù e riqualificato il reato di tratta nel reato di introduzione illegale nel territorio dello Stato, commessi nei confronti di una minore kosovara che, acquistata dalla famiglia di origine per la somma di 20.000 euro, veniva irregolarmente introdotta nello Stato italiano per essere condotta in un campo nomadi e forzatamente unita in un matrimonio concordato con i genitori della giovane e contratto secondo le consuetudini della comunità di appartenenza).
  • Cassazione penale, sez. V, 19 febbraio 2016, n. 15632. Le condotte che, alternativamente o congiuntamente, costituiscono la fattispecie criminosa di riduzione o mantenimento in schiavitù o servitù hanno tutte in comune lo stato di sfruttamento del soggetto passivo, ed implicano per loro natura il maltrattamento con il soggetto passivo, a prescindere dalla percezione che questi ne abbia, sicché non può ritenersi, in ragione del principio di consunzione, il concorso con il reato di maltrattamenti in famiglia, che può invece ritenersi sussistente solo nel caso di assenza di una condizione di integrale asservimento ed esclusiva utilizzazione del minore ai fini di sfruttamento economico, quando la condotta illecita sia continuativa e cagioni al minore sofferenze morali e materiali.
  • Cassazione penale, sez. V, 8 maggio 2015, n. 39197. Ai fini della privazione della libertà rilevante per la configurabilità dei reato di sequestro di persona non si richiede una privazioneassoluta, essendo sufficiente anche una relativa impossibilità di recuperare la propria libertà di scelta e di movimento, né alcun rilievo assumono, da una parte, la maggior o minore durata della limitazione, purché questa si protragga per un tempo giuridicamente apprezzabile, e, dall'altra parte, la circostanza che il sequestrato non faccia alcun tentativo per riacquistare la propria libertà di movimento, non recuperabile con immediatezza, agevolmente e senza rischi. Il reato, infatti, è configurabile anche quando il soggetto passivo riesca a riappropriarsi della propria libertà, dopo una privazione giuridicamente apprezzabile che segna il momento consumativo del sequestro: con la precisazione che a tal fine non occorre pervenire a una quantificazione minima temporale, giacché può bastare una privazione della libertà limitata a un tempo anche breve, anche limitato ad alcuni minuti (confermata, nella specie, la responsabilità di un padre, che aveva rinchiuso la figlia all'interno di un capannone, non condividendo le sue scelte sentimentali, ritenute non conformi ai voleri familiari, a nulla rilevando il presunto consenso della ragazza, che non risultava liberamente prestato o mantenuto, in quanto si inseriva in un contesto vessatorio).
  • Cassazione penale, sez. V, 9 gennaio 2015, n. 10426. Il delitto di riduzione o mantenimento in schiavitù o in servitù è a fattispecie plurima ed è integrato alternativamente dalla condotta di chi esercita su una persona poteri corrispondenti a quelli spettanti al proprietario, che, implicando la "reificazione" della vittima, ne comporta "ex se" lo sfruttamento, ovvero dalla condotta di riduzione o mantenimento di una persona in stato di soggezione continuativa, in relazione alla quale, invece, è richiesta la prova dell'ulteriore elemento costituito dalla imposizione di prestazioni integranti lo sfruttamento della vittima. (Fattispecie in cui la Corte ha ritenuto immune da censure la decisione impugnata che aveva ravvisato gravi indizi di colpevolezza del reato con riferimento a condotta di tipo "dominicale" realizzata anche attraverso lo sfruttamento dell'immagine della vittima, costretta a recarsi quotidianamente al cimitero presso la tomba del marito).
  • Cassazione penale, sez. V, 16 gennaio 2013, n. 98430. Ai fini dell'imputabilità nessun rilievo svolgono gli stati emotivi e passionali, salvo che essi non si inseriscano eccezionalmente in un quadro più ampio di "infermità", tale per consistenza, intensità e gravità da incidere concretamente sulla capacità di intendere e di volere, escludendola o scemandola grandemente, e a condizione che sussista un nesso eziologico con la specifica condotta criminosa, per effetto del quale il reato sia causalmente determinato dal disturbo mentale. (Fattispecie in cui si tratta di anomalie comportamentali).

Svolgimento

Svolgimento

CORTE D’ASSISE D’APPELLO DI ....

DICHIARAZIONE DI APPELLO

Il sottoscritto difensore e procuratore di Caia, nata a …., il …., residente in …., Via …., n. …., persona offesa costituita parte civile nel procedimento penale n. .... R.N.R., giusta procura speciale a margine dell’atto di costituzione in data …., propone appello avverso la sentenza n. ...., in data ...., depositata in data ...., con la quale la Corte d’Assise di ...., ad esito di dibattimento, ha mandato assolto Tizio e Sempronia dai reati di cui agli artt. 600 e 605 c.p., per i seguenti

MOTIVI

La sentenza è palesemente inesatta.

È doveroso precisare fin da subito che i Giudici di primo grado hanno erroneamente ritenuto l’insussistenza, in capo agli imputati, di profili di responsabilità penale in ordine ai reati contestati; ciò in quanto gli stessi non sarebbero imputabili poichè avrebbero agito in condizioni di eccessivo stress emotivo, causato dalla morte del figlio.

Inoltre, nell’ottica della sentenza impugnata, il reato di cui all’art. 600 c.p. non potrebbe comunque ritenersi integrato, giacché non sussisterebbe alcuna reificazione della ragazza da parte dei due suoceri.

Ebbene, è del tutto evidente l’erroneità dell’iter logico-giuridico seguito dalla motivazione de qua, avendo la medesima omesso di considerare, in primo luogo, che gli stati emotivi e passionali non siano idonei a determinare la non imputabilità del soggetto agente, salvo che gli stessi sfocino in una vera e propria patologia, idonea a far venir meno la capacità di intendere e di volere di quest’ultimo.

All’uopo, non pare superfluo richiamare l’ormai consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità che ha strenuamente affermato che “ai fini dell'imputabilità nessun rilievo svolgono gli stati emotivi e passionali, salvo che essi non si inseriscano eccezionalmente in un quadro più ampio di «infermità», tale per consistenza, intensità e gravità da incidere concretamente sulla capacità di intendere e di volere, escludendola o scemandola grandemente, e a condizione che sussista un nesso eziologico con la specifica condotta criminosa, per effetto del quale il reato sia causalmente determinato dal disturbo mentale” (Cass. pen., sez. V, 16 gennaio 2013, n. 98430).

Tanto detto, è indubbio che, alla luce delle risultanze dibattimentali, gli imputati non fossero affetti da alcuna patologia idonea ad incidere sulla loro capacità di intendere e di volere e che pertanto alcun rilievo possano assumere, con riferimento alla imputabilità degli stessi, la sofferenza e lo stress causati dalla prematura scomparsa del figlio Mevio.

Ciò detto, pare ora opportuno sottolineare la sussistenza, in capo agli stessi, di tutti gli elementi costitutivi delle fattispecie di reato loro ascritte.

Con specifico riferimento al delitto di cui all’art. 600 c.p., giova sottolineare che l’elemento materiale del delitto sia pienamente integrato dalla condotta dagli stessi posta in essere ai danni della nuora, come emerge indiscutibilmente dalle concordanti risultanze dibattimentali. Risulta, infatti, provato che la stessa si trovasse perennemente in uno stato di soggezione rispetto alla volontà di Tizio e Sempronia, in quanto totalmente asservita agli stessi e che tale elemento integri il requisito della “reificazione della vittima” e dello sfruttamento della stessa richiesto dalla giurisprudenza di legittimità per la sussistenza del delitto de quo.

All’uopo, la Corte di Cassazione ha recentemente statuito il principio secondo cui: “In tema di riduzione in schiavitù, ai fini della configurabilità del requisito dello stato di soggezione della persona offesa, rilevante per l'integrazione del reato, non è necessaria la totale privazione della libertà personale della medesima, ma soltanto una significativa compromissione della sua capacità di autodeterminazione. (Fattispecie in cui la Corte ha ritenuto la sussistenza del reato – rilevando come fosse irrilevante un minimo margine di autodeterminazione residuato alle vittime, cui era comunque impossibile sottrarsi al condizionamento degli imputati – in relazione alla condizione di ragazze nigeriane, anche minori d'età, totalmente private dei guadagni derivanti dall'attività di prostituzione esercitata e dei documenti necessari alla permanenza nel territorio italiano, tenute in stato di totale carenza di mezzi di sussistenza, limitate nella libertà di movimento ed intimidite da violenze e minacce)” (Cassazione penale, sez. V, 17 febbraio 2020, n. 15662).

Ed ancora, non può sottacersi che le dichiarazioni testimoniali rese in primo grado dalla vittima e da numerosi testimoni hanno, infatti, consentito di accertare che la donna, già allorquando era in vita il coniuge, venisse sottoposta a continue pretese e vessazioni ad opera dei suoceri e che tali illecite condotte si siano aggravate a dismisura a seguito del decesso del predetto. É difatti emerso che gli stessi le impedissero perfino di uscire di casa, fino al punto di segregarla per diverse ore nella cantina, e che la costringessero a recarsi quotidianamente presso la tomba di Mevio.

Tali condotte, senza dubbio coscienti e volontarie, ed integrano a pieno titolo il delitto di cui all’art. 600 c.p., peraltro aggravato ai sensi dell’art. 61, n. 11 c.p.; pertanto, la sentenza di primo grado dovrà essere riformata, con conseguente condanna dei prevenuti.

Parimenti sussistente deve ritenersi il reato di cui all’art. 605 c.p., il quale ben può concorrere con quello sopra analizzato, con riferimento alla condotta, posta in essere da Tizio e Sempronia in molteplici occasioni e consistita nella segregazione della donna all’interno della cantina dell’abitazione.

Come noto, infatti, la fattispecie illecita in esame sussiste ogniqualvolta il soggetto passivo sia limitato nella propria capacità di movimento, non assumendo alcun tipo di rilievo la durata della privazione suddetta, purché la stessa si prolunghi per un lasso temporale giuridicamente apprezzabile. Non appare dunque rilevante la circostanza per cui tale segregazione durasse solo per alcune ore e che l’odierna appellante recuperasse in seguito, seppure limitatamente, la propria libertà di movimento.

Altrettanto indubbia è la sussistenza dell’elemento psicologico del dolo, perfettamente integrato nella fattispecie.

Pertanto, alla luce di quanto esposto, i prevenuti ben dovranno essere condannati anche con riferimento al delitto suddetto.

D’altra parte, come già approfonditamente argomentato nanti i Giudici di prime cure, è incontestabile la fondatezza del danno cagionato dall’imputato alla parte civile costituita, la quale ha subito un rilevantissimo danno di natura non patrimoniale, consistente nelle sofferenze fisiche e psichiche patite in ragione delle condotte gravemente vessatorie poste in essere dai prevenuti, il quale dovrà essere integralmente risarcito.

Per questi motivi, in riforma alla sentenza impugnata, Voglia l’Ill.ma Corte d’Assise d’Appello di ...., affermata la penale responsabilità di Tizio e Sempronia in ordine ai reati loro ascritti, condannare gli imputati al giusto risarcimento di tutti i danni patiti dalla persona offesa, costituita parte civile, da liquidarsi nella somma di euro …. od in quella somma maggiore o minore che risulterà ad esito del giudizio, con gli interessi legali e la rivalutazione come per Legge, accordando una provvisionale non inferiore ad euro …. oltre al pagamento delle spese processuali.

...., lì ....

                                                                                           (Avv. ....)