DIRITTO PENALE

La Suprema Corte torna ad occuparsi del c.d. captatore informatico, ribadendo i principi espressi dalle Sezioni Unite Penali

30 Marzo 2021

Cassazione penale

L’inoculazione di c.d. trojan horse su dispositivi in uso alla persona sottoposta ad indagini, infatti, costituisce un recente veicolo di potente intrusione nella vita privata, assicurando però l’acquisizione di molteplici informazioni sul prevenuto, di parziale rilevanza investigativa e superando i limiti fisici – ed il paradigma applicativo – dei precedenti strumenti di intercettazione ambientale.

Lo fa, dinanzi a nuove censure che, tuttavia, non paiono scalfire la ricostruzione teorica promossa dagli Ermellini e, seppur con un perimetro diverso, fatta propria dal legislatore, con la disciplina introdotta dal d.l. n. 216/2017.

 

Il caso. Il procedimento a quo s’era innescato in Puglia, in seguito alla contestazione di associazione a delinquere di stampo mafioso, finalizzata alla commissione di numerosi reati, tra i quali estorsione, rapina e cessione di sostanze stupefacenti, mossa ad un sodalizio locale, composto da due gruppi armati, affiliati allo scopo.

Il Giudice per le Indagini Preliminari, con l’ordinanza restrittiva, aveva applicato ai prevenuti la misura di massima custodia ed avverso il provvedimento impositivo aveva interposto ricorso per Cassazione la difesa di uno di loro, deducendo quattro distinti motivi, aventi tutti ad oggetto errori procedurali implicanti l’inutilizzabilità del contenuto delle captazioni, eseguite mediante software introdotto su un dispositivo utilizzato dall’indagato.

Con l’atto, il deducente sostiene, in primis, che la fraudolenta installazione dell’applicazione sul telefono del ricorrente impedirebbe di usare come fonte di prova il risultato conoscitivo, poiché l’acquisizione sarebbe avvenuta con modalità lesive di diritti fondamentali, garantiti dagli art. 2 e 15 della Carta, ed in pregiudizio alla proprietà privata, per l’indebita sottrazione di energia alle batterie di alimentazione, connessa al funzionamento del programma informatico.

Secondariamente, critica l’indirizzo avallato dalla Sezioni Unite Scurato (cfr. Cass., SS. UU. Pen., n. 26889/2016) – che, riconoscendo il carattere dinamico dell’intercettazione c.d. itinerante, ha fatto salvi i risultati di tali indagini anche quando siano stati ottenuti registrando dialoghi in luoghi diversi da quelli indicati nell’originario decreto – da ciò facendo conseguire la violazione dell’art. 266, comma secondo, c.p.p..

Infine, denuncia che sarebbero comunque viziati gli esiti dell’attività investigativa, posto che, per un verso, il captatore integrerebbe una forma di prova atipica incostituzionale, per i suoi connotati  ontologicamente pregiudizievoli e, in ogni modo, non adeguatamente definiti e, per l’altro, le autorizzazioni dell’Autorità procedente che si erano succedute non avrebbero dato conto delle ragioni che avevano portato a preferirlo rispetto ad altre tecniche di acquisizione delle comunicazioni meno invasive.

 

La sentenza. La Sezione V – su parere difforme del Procuratore generale, che aveva concluso chiedendo che il ricorso fosse dichiarato inammissibile – rigetta l’impugnazione, condannando il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

L’Estensore riesce nell’intento di compendiare in una motivazione sintetica il ragionamento che porta a reputare infondate tutte le doglianze difensive, aiutato pure dalla presenza di chiare coordinate ermeneutiche – provenienti dal Massimo Consesso interpretativo – e legislative, stante il fresco intervento normativo teso a regolamentare lo strumento in discussione.

In quest’ottica, sin da subito provvede a fugare ogni dubbio circa la compatibilità con la Costituzione di questo tipo di accertamenti, quanto meno rispetto alla protezione accordata al diritto di proprietà.

 

Il bilanciamento dei diritti in campo. Appare evidente, per l’iter motivo, come il campo di tutela previsto dall’art. 42 Cost. non possa che restringersi dinanzi alla necessità di assicurare l’interesse pubblico all’accertamento dei delitti, peraltro particolarmente gravi, la cui sussistenza debba essere ricostruita tramite le indagini digitali in esame (rimanendone esclusa l’operatività per reati di c.d. criminalità comune; si cita, in proposito, Cass., Sez. I Pen., n. 50972/2019); obiettivo certamente prevalente, quando debba contemperarsi con la ridottissima compressione patrimoniale subita dal proprietario dello smartphone per l’assorbimento supplementare di energia elettrica provocato dal trojan.

Analogamente, il Collegio boccia l’esegesi della norma di rito proposta dall’impugnante, che sembra perdere di vista il punto di equilibrio tra i valori in campo.

 

La (corretta) lettura delle disposizioni di riferimento. Ed invero, per il codice di procedura penale «il riferimento al luogo non integra un presupposto dell’autorizzazione, ma rileva solo per delimitarne i margini della motivazione del decreto, nella quale, quindi si dovranno indicare le situazioni ambientali oggetto della captazione».

Si conferma, così, l’esigenza di rendere attuali le disposizioni evocate dalle doglianze difensive, declinando i canoni abituali nell’odierno contesto tecnologico, che, in considerazione delle potenzialità di monitoraggio delle comunicazioni dei nuovi mezzi di indagine, deve condurre ad un’interpretazione che pone l’accento, più che sui singoli luoghi, sulle parti della condotta sociale di ciascuno meritevoli d’essere esplorate, in quanto pertinenti all’inchiesta.

Potrà essere invece valutata successivamente l’inutilizzabilità di specifiche porzioni delle captazioni, che contrastino con divieti di legge (ad esempio, perché riguardanti conversazioni tra assistito e difensore).

 

Conclusioni. La sentenza in commento riepiloga efficacemente i punti cardine della recente regolamentazione di software capaci di registrare le comunicazioni “seguendo l’indiziato”, tutt’ora di matrice parzialmente pretoria (per investigazioni alle quali, ratione temporis, non sia applicabile la normativa del 2017).

Sebbene l’approdo raggiunto sia, sul piano dogmatico, ineccepibile, resta qualche perplessità, al giurista pratico, sulla scarsa coerenza disciplinare – finalità intrinseca dell’inutilizzabilità – di un sistema costruito sull’espunzione a posteriori di dati comunque entrati nella cognizione degli investigatori, vulnerando una riservatezza che oggi, inevitabilmente, si declina soprattutto nel panorama digitale.

 

Fonte: Diritto e Giustizia