DIRITTO PENALE

Il sottile confine tra controlli a distanza dei lavoratori non autorizzati e tutela del patrimonio aziendale

05 Febbraio 2021

Il caso. Il proprietario di un’attività di commercio al dettaglio veniva condannato all’ammenda di euro 200,00 per il reato di cui agli artt. 4 e 38 dello Statuto dei Lavoratori, poiché aveva installato all’interno della sua azienda impianti video utilizzabili per il controllo a distanza dei lavoratori, senza che ciò fosse oggetto di accordo con le rappresentanze sindacali aziendali o con l’Ispettorato del Lavoro.
Contro tale sentenza l’imputato proponeva ricorso per cassazione, articolato in due motivi. Con il primo, veniva fatta valere violazione di legge in riferimento agli articoli 4 e 38 della Legge n. 300 del 1970, poiché gli impianti video costituivano strumenti a difesa del patrimonio aziendale, in quanto erano stati installati a seguito del verificarsi di mancanze di merce dal magazzino ed erano puntati esclusivamente verso la cassa e le scaffalature, per cui il reato non sarebbe stato configurabile, dato che i suddetti impianti non consentivano un controllo a distanza dell’attività dei dipendenti.
Con il secondo motivo si lamentava vizio di motivazione, anch’esso con riferimento alla configurabilità del reato, poiché il Giudice di merito aveva condannato l’imputato, nonostante dall’istruttoria dibattimentale fosse emerso che gli impianti video erano stati installati ai soli fini di tutela del patrimonio aziendale.

 

Il contesto normativo. Preliminarmente la Suprema Corte ripercorreva le numerose modifiche normative relative alle sanzioni per la violazione dell’art. 4 dello Statuto dei Lavoratori, dando comunque atto che le stesse – originariamente previste come reato – rimanevano tuttora rilevanti sul piano penale.
Il Collegio sottolineava, però, come la giurisprudenza, sia penale che civile, non avesse individuato una soluzione unitaria sui limiti di configurabilità di tale reato. Non ritenendo ravvisabile – nonostante i diversi rimaneggiamenti dell’art. 4 – una abolitio criminis, anche solo parziale, la Suprema Corte ripercorreva le varie interpretazioni giurisprudenziali della norma, comprese quelle fornite in relazione al testo previgente della stessa.
Si richiamava, in primo luogo, l’orientamento secondo cui la violazione dell’art. 4 dello Statuto dei Lavoratori costituisse un reato di pericolo, come tale punibile anche qualora il controllo a distanza dei dipendenti fosse solo potenziale, evidenziando tuttavia come la Corte di Legittimità avesse ritenuto che non fossero penalmente rilevanti i cosiddetti controlli difensivi, e cioè diretti all’accertamento di condotte illecite dei lavoratori.
La Suprema Corte ricordava altresì l’orientamento giurisprudenziale, ampiamente consolidato, che riteneva utilizzabili – nel processo penale a carico del lavoratore – le riprese effettuate dal datore di lavoro a tutela del patrimonio aziendale.
Il Collegio, infine, evidenziava che anche la giurisprudenza civile si era espressa nel senso di non ritenere applicabili le garanzie previste dallo Statuto dei Lavoratori ai controlli difensivi diretti all’accertamento di illeciti dei dipendenti e alla tutela del patrimonio aziendale, specialmente qualora tali controlli vengano attuati solo dopo che il comportamento lesivo fosse già stato attuato. Ciò consentirebbe, infatti, un bilanciamento conforme ai principi di ragionevolezza e proporzionalità tra i contrapposti diritti al rispetto della propria persona e al libero esercizio dell’attività imprenditoriale.

 

La soluzione offerta dalla Corte. Secondo i Giudici di Legittimità, era dunque da escludersi una interpretazione eccessivamente ampia dell’art. 4 dello Statuto dei Lavoratori, che punisse l’utilizzo di impianti di sorveglianza non autorizzati dalle rappresentanze sindacali o dall’Ispettorato del Lavoro qualora tali impianti non comportino controlli non occasionali sull’attività dei dipendenti o, comunque, debbano restare sconosciuti a questi per poter accertare gravi condotte illecite.

 

Fonte: Diritto e Giustizia

Tale interpretazione appariva fondata, in primo luogo, sul dato letterale della norma, che non sembra essere applicabile ad impianti audiovisivi che possano comportare solo controlli occasionali, poiché l’accordo preventivo è richiesto qualora dall’installazione degli impianti possa derivare “anche” la possibilità di un controllo a distanza dei dipendenti.
D’altra parte, la stessa norma sembra circoscrivere le ipotesi di non operatività del divieto di cui all’art. 4 della Legge n. 300 del 1970, poiché richiede l’accordo anche qualora ricorrano esigenze di tutela del patrimonio aziendale; peraltro, sottolinea la Corte, la possibilità di ottenere un accordo con l’Ispettorato del Lavoro qualora esso non sia stato raggiunto con le rappresentanze sindacali consente al datore di lavoro di tutelare le proprie ragioni senza, comunque, cagionare un’eccessiva interferenza sulla dignità e libertà delle prestazioni del lavoratore.
Si osservava, infine, come una simile conclusione fosse supportata anche dalla giurisprudenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, che affermava la possibilità per gli Stati membri di porre limitazioni al diritto al rispetto della vita privata e della corrispondenza in ambito lavorativo, purché tali limitazioni fossero proporzionali, venissero previste idonee garanzie procedurali, e si adottassero idonee misure protettive di natura penale.

 

Il Collegio annullava dunque la sentenza impugnata, riscontrando lacune motivazionali, sia in relazione alla funzionalità di mera tutela del patrimonio aziendale dell’impianto di sorveglianza, sia alla sua idoneità ad un controllo non occasionale sull’attività dei lavoratori o – comunque – alla necessità che l’impianto stesso rimanesse sconosciuto ai dipendenti al fine di poter individuare condotte illecite degli stessi. Veniva dunque disposto il rinvio al Giudice di merito al fine dell’accertamento in merito alle predette questioni.

 

Fonte: Diritto e Giustizia