DIRITTO PENALE

Ginecologo rivela alla paziente la sterilità del marito: è violazione di segreto professionale?

14 Gennaio 2021

Cassazione penale

Questo l’oggetto della sentenza della Suprema Corte n. 318/21, depositata il 7 gennaio.

 

La Corte d’Appello di Torino proscioglieva l’imputato dai reati di rivelazione di segreto professionale e di diffamazione, in quanto estinti per prescrizione, confermando le statuizioni civili. Tale affermazione di responsabilità, rilevante ai soli effetti civili, si basa sul fatto che l’imputato (ginecologo, psicoterapeuta e sessuologo), nel rilasciare alla sua paziente un certificato medico, aveva rivelato senza giusta causa circostanze riservate relative alla sfera sessuale e procreativa del marito della stessa, con riferimento, in particolare, alla sua scarsa fertilità.

 

Avverso tale pronuncia, l’imputato propone ricorso per cassazione, ponendo in evidenza una premessa fattuale: egli era ginecologo della moglie della persona offesa e riferisce che, una volta falliti i numerosi tentativi di inseminazione omologa, la coppia aveva deciso di intraprendere il percorso di inseminazione artificiale, da cui era nata la figlia. In seguito, però, i due coniugi si erano separati e il marito aveva intentato una causa finalizzata al disconoscimento della paternità, ponendo alla base dell’azione civile un certificato medico attestante la sua “severissima infertilità”.
Proprio per questo, la ex moglie chiedeva all’imputato il rilascio del certificato in questione, per consentire alla stessa di produrre nel procedimento civile elementi volti a tutelare gli interessi superiori della figlia.
Per questo motivo, l’imputato denuncia nel ricorso la violazione di legge e il vizio di motivazione inerente alla ritenuta sua responsabilità, considerando che la notizia relativa alla infertilità del marito della sua paziente era già stata resa nota nel procedimento teso al disconoscimento della paternità, dovendosi, dunque, ravvisare la sussistenza di una giusta causa.

 

La Corte di Cassazione dichiara il motivo di ricorso fondato, rilevando che il certificato di cui si discute era stato effettivamente rilasciato dall’imputato su richiesta della paziente ai fini della sua produzione nel giudizio di disconoscimento della paternità intrapreso dal marito nei mesi precedenti, non essendoci, dunque, stata alcuna rivelazione di segreto professionale in quanto la notizia era già conosciuta.
In tale contesto, i Giudici di legittimità evidenziano che la clausola “giusta causa” funge da valvola di sicurezza del meccanismo repressivo, connettendo il suo carattere “elastico” alla «impossibilità pratica di elencare analiticamente tutte le situazioni astrattamente idonee a “giustificare” l’inosservanza del precetto», poiché una tale elencazione andrebbe incontro al rischio di lacune che danneggerebbero il reo, considerando che la suddetta clausola ha il compito di escludere la punibilità di condotte per il resto corrispondenti alla fattispecie legale.
La Suprema Corte affida, dunque, la nozione di giusta causa ad un concetto generico di giustizia, mentre la dottrina sostiene che il legislatore abbia voluto riferirsi (oltre alla cause di giustificazione contemplate dagli artt. 50 ss. c.p.) anche a tutte le altre cause «suscettibili di escludere l’illiceità della rivelazione in base a principi del bilanciamento degli interessi o dell’adeguatezza del mezzo rispetto ad uno scopo lecito non altrimenti realizzabile».

 

Ciò posto, nel caso concreto la Corte ritiene che non si possa affermare che l’imputato abbia rivelato le circostanze menzionate inerenti al marito della paziente, essendo stato quest’ultimo il primo a rivelare tali circostanze al momento dell’esercizio dell’azione di disconoscimento della paternità nei mesi precedenti.
Per queste ragioni, la Corte di Cassazione annulla la decisione impugnata limitatamente agli effetti civili e rinvia per un nuovo giudizio al giudice civile competente.

 

Fonte: Diritto e Giustizia